Quel limite che chiama alla conversione.
Una duplice sollecitazione ci spinge ad affrontare questo tema: da una parte la crisi, ormai chiaramente non solo economica ma sistemica (quindi anche culturale e spirituale) che l’Europa sta attraversando, dall’altra quel vero e proprio evento dello Spirito che sono i gesti e le parole di papa Francesco, che ha esordito, non solo con la scelta del proprio nome, lanciando lo slogan di «una Chiesa povera, per i poveri».
La povertà ci disturba, ma questo è, forse, il suo valore più grande.
Disturba se ci minaccia e mette in discussione le certezze materiali su cui fondiamo, dopotutto, la nostra esistenza quotidiana e la nostra progettualità: pensiamo solo, tanto per dire una ovvietà, al tema del lavoro, che ha un riscontro ben più che economico. Ma disturba anche se la poniamo come valore, come stile di vita, perché ci chiede di privarci di sicurezze esteriori per porci in un atteggiamento di affidamento, che ponga le sue basi in qualcosa (o meglio in qualcuno) che va al di là di noi stessi.
Affrontiamo il nodo: cosa vuol dire essere povero? Il riferimento biblico alla povertà (dai poveri di Yhwh, ai poveri delle beatitudini) rinvia a una dimensione socioeconomica o spirituale? Superare questa ambiguità sarebbe di grande aiuto per impostare correttamente la nostra riflessione, ma per farlo dovremmo anche essere capaci di superare il dualismo fra materiale (socio-economico) e spirituale.
Il povero è icona dell’essere umano che accetta la propria umanità, ma di un essere umano che accettando la propria umanità non si pone di fronte ad essa in un atteggiamento di rassegnato disincanto, quanto piuttosto ne fa la radice del proprio riscatto.